Effetto Guggenheim a Torino. Intervento della dott.ssa Elisa Cerruti

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°3 - febbraio/marzo 2008)

Effetto Guggenheim a Torino.
Risultati socio-economici degli insestimenti culturali.

Il 10 gennaio presso il Salone d’Onore della Fondazione Crt è stata presentata una ricerca dal titolo: “Progetto capitale culturale.Cultura motore di sviluppo 2007-2009”.
A quattro anni di distanza dalla prima edizione, la ricerca, promossa dalla Divisione Servizi Culturali della Città di Torino, in collaborazione con Compagnia di San Paolo e Fondazione Crt, indaga quali siano gli effetti socio-economici degli investimenti culturali di provenienza pubblica e privata e quali i risultati delle politiche culturali messe in atto.
Nel progetto sono stati coinvolti attori pubblici, fondazioni bancarie, imprese e associazioni di settore, professori e ricercatori dell’Università di Torino e 46 comuni dell’hinterland torinese.
La questione è: può la cultura diventare uno dei motori dello sviluppo cittadino?
Il rilancio di una città metropolitana qual è Torino, storicamente legata al settore industriale, può passare per il terziario e attraverso lo sviluppo del settore culturale generare ricadute positive sul territorio circostante? Attraverso un’analisi multidimensionale la ricerca vuole quantificare quale sia il ritorno in termini di benessere sia economico, sia sociale di tali ricadute.
Chiaramente i rice
rcatori e i lettori sono consapevoli del fatto, eclatante, che la ricchezza di cui si scrive non sia meramente economica. L’output che l’investimento culturale può innescare non si limita a creare un, seppur virtuoso, flusso di denaro. Vi sono beni e servizi che non possono essere suscettibili di una valutazione meramente monetaria, il cui valore è per definizione considerato intangibile. Attraverso l’investimento in attività culturali si aumenta il livello intellettuale del capitale sociale che vive di relazioni, interscambio di conoscenze e cooperazione.
Tali fattori sono riconosciuti dal pensiero economico come determinanti lo sviluppo e la crescita umana, ma anche monetaria, di una società. Inoltre numerosi studi dimostrano che laddove vi è maggiore investimento in cultura, diminuisce la criminalità, aumenta la qualità della vita e di conseguenza la capacità di attrarre investimenti. Un esempio per tutti è il caso Bilbao e il cosiddetto effetto Guggenheim. Gli analisti dell’urban resurection ritengono infatti che la costruzione del museo, nel 1997, abbia guidato la rinascita della capitale basca, che solo un ventennio fa aveva un tasso di disoccupazione del 25% e una percentuale di tossicodipendenza tra le più alte in Europa.

È chiaro che la cultura non possa essere considerata la panacea di tutti i mali, ma le esternalità positive che ne derivano invitano a investire, monitorare e patrocinare il settore, superando la semplice e talvolta demagogica filantropia. Quello che la ricerca torinese sottolinea (e speriamo che gli amministratori pubblici siano in grado di coglierne il profondo significato) è che non deve essere l’analisi costi-benefici a determinare un investimento in ambito culturale, tali investimenti devono essere sostenuti da scelte politiche, non economiche. Le prime, ci ricorda la ricerca, si differenziano dalle seconde per essere mosse dai valori che i politici sono chiamati a tutelare dal loro stesso mandato elettorale e non dai bilanci e dai ricavi attesi.
D'altronde basta dare una rapida lettura ai testi giuridici per conoscere la volontà del Legislatore il quale prescrive che i beni culturali siano dapprima conservati e tutelati (il che comporta ovviamente dei costi), in seguito valorizzati (e qui subentra una matrice più economica e redditizia) in funzione della fruizione collettiva, ossia il miglioramento della qualità della vita e del livello di istruzione della comunità.
Ciò premesso, tutti gli operatori del settore conoscono, ahinoi, la situazione precaria che contraddistingue il settore culturale, continuamente esposto a istanze di razionamento determinate prettamente da scelte economiche e raramente da decisioni politiche.
Ecco dunque che la ricerca presentata a Torino si rivela indispensabile a quantificare l’impatto economico e le ricadute finanziarie che il settore è in grado di innescare. Insomma, se non bastassero i validissimi motivi ideologici, gli amministratori pubblici potranno illuminarsi dilettandosi nella lettura di dati e percentuali.

Dalla ricerca risulta infatti che l’insieme delle ricadute finanziarie e l’eterogeneità dei suoi impatti siano adeguati a giustificare azioni economiche sostanziose che risultano non solo politically correct ma economicamente efficienti. Ergo, l’economia non giustifica il sostegno pubblico alla cultura, ma laddove servisse,dimostra che questo sostegno è utile, efficace e razionale. Le esternalità positive prettamente monetarie sono di una portata tale da giustificare un incremento degli investimenti rispetto ai valori attuali.
Tuttavia bisogna tenere presente che i dati della ricerca si riferiscono all’anno 2006, anno eccezionale per Torino, sede olimpica dei XX Giochi Olimpici Invernali, che ha visto svilupparsi un crescente interesse per la città e le sue valli. Secondo i relatori, l’effetto Olimpiadi ha rappresentato “circa il 30% dell’effetto complessivo della spesa culturale sul turismo”. Il fenomeno è ancora in atto e secondo le previsioni dei ricercatori l’80% di questo aumento potrebbe risultare permanente, non limitato al biennio 2006 -2007. I dati riportati indicano che le ricadute delle olimpiadi sono di due tipi: transitorie e permanenti. La componente transitoria ha un valore stimato in circa 9 milioni di euro, mentre la componente permanente vale circa 70 milioni di euro. Ci auguriamo che gli operatori culturali, turistici e amministrativi sappiano riconoscere e sfruttare la straordinaria visibilità che il momento attuale ha regalato, non senza ingenti sforzi, alla collettività, affinché i feedback positivi siano di lungo termine.

Complessivamente, è stato calcolato che a Torino la cultura genera un flusso economico di oltre 1,72 miliardi di euro all’anno, dato interessante che può sembrare più comprensibile ai non addetti ai lavori se si spiega che corrisponde al 4,1% del Pil cittadino, ossia il valore complessivo di ricchezza generato nell’area torinese. Questo a fronte di investimenti istituzionali che ammontano a 320 milioni di euro. A soldoni, poiché di soldoni si tratta, la ricerca presentata a Torino dimostra che l’effetto leva degli investimenti in cultura produce oltre 5 euro e mezzo per ogni euro investito. Ciò è possibile perché i soldi spesi per la cultura attivano una filiera di attività economiche e si reimmettono nel circuito economico.
Quello che i ricercatori sottolineano, però, è che la ricerca non intende quantificare il valore di beni o di attività culturali, che sarebbe difficile quanto inutile conteggiare, bensì misurare quale sia il flusso economico creato in un dato periodo di tempo a partire dagli investimenti, in maggior parte pubblici, effettuati.
Produrre cultura, conservare i beni culturali e renderli conosciuti e fruibili ha un impatto economico che si può misurare con precisione. Inoltre l’indotto generato dalla filiera culturale risulta godibile anche da coloro che non ne sono fruitori diretti. È il caso di quanti risiedono o hanno proprietà in quartieri che vengono riqualificati e divengono centri di attrazione turistico-culturale. Un esempio riportato in ricerca è la crescita del valore degli immobili che si trovano nelle zone limitrofe la Reggia di Venaria, recentemente restaurata. Gli autori della ricerca hanno deciso di prendere in considerazione anche queste esternalità economiche, in quanto è ormai dimostrato che la spesa culturale si interseca con gli investimenti di riqualificazione urbana e di pubblic art. Sono diverse infatti le città che hanno investito nella rigenerazione urbana, quella immobiliare risulta infatti un’argomentazione che offre agli interessati un impressionante pretesto di vendita.
A tal proposito ci piace osservare come la ricerca raggiunga una maggior completezza ed esaustività nel confrontare alcuni indicatori della rilevanza economica torinese con gli stessi indicatori riferiti ad altre aree metropolitane. Torino è stata confrontata con la vicina Milano, come il solito vecchio campanilismo impone, e con città che hanno scelto di convertire la propria economia in economia della creatività, vale a dire: Bilbao e Helsinki.
La letteratura economica si muove quindi in una direzione e dimostra che il settore culturale non è semplicemente un settore di allocazione delle risorse, ma può generare attività economica, ricchezza privata e collettiva, esternalità positive in grado di ricadere su aree geografiche estese.
Ci auguriamo però che la ricerca non resti solo inchiostro su carta, ma che risvegli le coscienze e aiuti a mettere mano ai portafogli, soprattutto dopo le ultime decisioni prese dagli amministratori pubblici, in netta controtendenza con quanto esposto.
Infine, ci permettiamo di notare che non è tutto oro quello che luccica. La ricerca torinese si riferisce, ovviamente, ad un dato territorio, ma sarebbe utile che i decision makers non ignorassero le ricerche prodotte altrove, che registrano anche casi di notevoli fallimenti con conseguenti polemiche e cause giudiziarie, alla ricerca dei capri espiatori da mettere alla gogna. È emblematico il caso della municipalità di Valencia che fa causa a Santiago Calatrava o quello del Milwaukee Pubblic Museum, la cui nuova ala è stata recentemente inaugurata, situazione che però non è servita a evitare la bancarotta. Spesso si vorrebbe che artisti e architetti risolvessero emergenze sociali ed economiche e si commissionano progetti faraonici, costosi e per nulla adatti ad inserirsi sul territorio di riferimento, del quale non sono state studiate a fondo le caratteristiche. Senza andare troppo lontano, è il caso di Pala Fuksas, costruitito proprio in occasione delle olimpiadi torinesi, che si è rivelato un contenitore luccicante senza contenuto, né progettualità. Lo stesso destino pare subirà nella capitale sabauda il Pala Isozaki la cui destinazione non è ancora definita. Per ovviare alla costruzione (per altro costosissima) di vere e proprie cattedrali nel deserto, ci permettiamo di suggerire agli investitori di avvalersi di équipe multidisciplinari, più adatte a cogliere i diversi aspetti che si intersecano su un territorio e di puntare su progetti anche di minore visibilità ma di maggior successo, senza scomodare per forza i grandi nomi e magari promuovendo giovani talenti emergenti, sicuramente meno costosi.

Per correllare l'articolo e approfondirlo, ho deciso di rivolgere alcune domande alla dott.ssa Elisa Cerruti, docente a contratto presso la Facoltà di Economia di Torino e membro del gruppo di studio che ha sviluppato la ricerca a Torino.

Susanna Sara Mandice: Dottoressa vuole per cortesia presentarci bevente la ricerca? Elisa Cerruti: La ricerca - che è giunta alla sua quarta edizione, il cui responsabile scientifico è il professor Piergiorgio Re e del cui gruppo di lavoro fanno parte anche tra gli altri il professor Russo e il dottor Bertoldi - è il tentativo inedito per l'Italia di quantificare, di dare una misura a "qualcosa" che non è di semplice quantificazione e per il quale si potrebbero proporre diversi modelli d'analisi, che verosimilmente porterebbero a risultati molto vicini al nostro. Il nostro approccio ha cercato di condurre alla comprensione delle ricadute sul territorio dovute all'investimento in cultura e abbiamo lavorato sugli aspetti economici in questa edizione, riflettendo anche in maniera inedita sulle esternalità dovute agli investimenti in cultura per la riqualificazione di beni storico-architettonici e monumentali che ricadono sul privato in termini di incremento di valore immobiliare. Il nostro lavoro è stato un esercizio di quantificazione assolutamente disgiunto da considerazioni nel merito della qualità delle opere e delle iniziative. La qualità ad oggi è stabilita fondamentalmente dalla critica e dal mercato ovvero il pubblico (anche se alcuni delicati tentativi sono stati compiuti negli ultimi vent'anni da alcuni ricercatori per arrivare a quantificare la qualità di un bene culturale ma non si conoscono ad oggi modelli normalizzati). Nel nostro modello ciò che si può indirettamente registrare è la qualità riconosciuta ed attribuita alle iniziative dal pubblico attraverso l'acquisto dei biglietti, qualità che viene riconosciuta dal pubblico anche grazie alla comunicazione e dunque al successo di critica.

S.S.M. Una domanda che sta a cuore a tutti i Torinesi, anche a coloro che non si occupano/interessano di politiche culturali. Perché avete ragione di credere che l'effetto Olimpiadi non si esaurisca e sia, invece, in grado di perdurare nel medio-lungo periodo? E.C. Il fenomeno delle Olimpiadi ha rappresentato dal punto di vista della ricerca un grado di complessità. Si è trattato come noto di un picco che è stato necessario valutare con cautela. Sulla coda di questo fenomeno per Torino le teorie sono discordanti e in ogni caso solo il tempo potrà dirci quale sia l'effettivo impatto sul lungo periodo. Quello che vorrei sottolineare è tuttavia il fatto che il profilo del visitatore negli anni è mutato e lo si comprende osservando le ricerche sulle presenze in città. Una delle prime, che abbiamo usato per i primi tre anni della ricerca è stata condotta per la Camera di Commercio di Torino nel 2003 e riporta la prevalenza, su un campione di circa 600 intervistati, di presenze per motivi di lavoro e di visita a parenti e amici con una bassa incidenza della spesa per servizi per il tempo libero rispetto alle altre voci. Nel 2006 durante le Olimpiadi è stata realizzata per Turismo Torino una nuova ricerca che evidenzia - ovviamente - come la situazione sia completamente mutata: la prevalenza delle presenze è giunta in città per motivi di fruizione del tempo libero. Fin qui nulla di strano. Nel 2007 la nostra ricerca ha attivato una nuova ricerca sui visitatori di alcuni musei torinesi, sono state raccolte 12.000 interviste per capire quale fosse la provenienza e il motivo della presenza a Torino da parte dei visitatori di alcuni tra le principali attrattività permanenti del territorio. Volevamo dati primari e ad hoc proprio per verificare quale fosse il comportamento del consumatore e in particolare volevamo avere dati sulla componente culturale a distanza di un anno dalle Olimpiadi invernali: i risultati ci hanno sorpreso. Quella turistica rappresenta la motivazione di visita principale: per il 74,5% dei turisti (chi giunge dall'estero e da fuori dalla regione Piemonte) e il 74,2% degli escursionisti ( coloro che giungono a Torino provenendo da un'isocrona che consente loro di effettuare la visita in giornata).Dunque la tendenza sembra tenere, in termini di numeri ma anche e soprattutto di qualità. Oltre questo orizzonte non è tuttavia possibile prevedere. E' una partita delicata tutta da giocare di cui gli attori del territorio sono consapevoli e per la quale si stanno muovendo da tempo, ben consapevoli che le risorse spese in cultura presentano ricadute complesse dai risvolti molteplici spesso non linearmente ricostruibili e sicuramente non completamente quantificabili. I sistemi di valutazione quale quello adottato dal Progetto Capitale Culturale sono utili proprio perchè a differenza delle realtà aziendali le attività delle realtà culturali non permettono nella maggior parte dei casi di realizzare gli utili necessari per raggiungere l'equilibrio economico finanziario, dunque l'impatto che esercitano non è interamente rilevabile dai bilanci d'esercizio. In altre parole mentre a fine anno un'azienda analizza il bilancio e valuta quali siano state le performance dell'anno e la ricchezza generata per gli azionisti e l'azienda, gli enti culturali non trovano e non potrebbero in ogni caso trovare, sui propri bilanci d'esercizio il valore pieno delle proprie attività proprio per la loro natura di servizio pubblico e per le policies che ad essi vengono applicate. Garantire l'accesso e la diffusione di cultura mal si coniugano spesso con le strategie per equilibrare il bilancio. Sono rari gli studi che cerchino di fissare un break even point - il punto di pareggio che individua il momento in cui il rapporto prezzo/costi/quantità raggiunge l'equilibrio - per i musei ad esempio. Uno realizzato pochi anni fa negli Stati Uniti per i musei fissava in circa 24-26 dollari il prezzo medio del biglietto, mantenendo costante l'ottimizzazione dell'afflusso alle strutture, indispensabili per garantire standard di sicurezza e conservazione delle opere, ma anche di fruizione. Sono cifre che trovano una difficile applicazione nelle realtà italiane per innumerevoli motivi - ad esempio nel caso dei musei perchè molto spesso le tariffe sono regimentate da regolamenti comunali per garantire il più ampio accesso possibile-.

S.S.M. Ci auguriamo che la vostra ricerca induca gli amministratori della governance cittadina a proseguire nella direzione indicata. C'è però il rischio che, dando troppa importanza ai fattori economici, si perdano di vista alcuni intangibili valori. Cosa consiglia agli investitori per non cadere in questa trappola? E.C. La consapevolezza pubblica così come quella privata che i beni culturali siano un valore determinante per il territorio non solo in termini economici si esprime proprio attraverso le policies di cui ho appena parlato. L'accesso al bene culturale consente la fruizione e la partecipazione alle attività ad esso connesse e sta proprio in questi due fattori il germe della potenzialità della cultura. Accesso e partecipazione consentono all'individuo di entrare in contatto con il proprio - e l'altrui - patrimonio culturale, di costruire e ricostruire senza posa la propria identità e di sentirsi parte di una comunità in continua evoluzione. Come noto, coesione, identità, benessere derivano anche dall' "uso" - lo virgoletto perchè vorrei astrarlo in questa sede dal dibattito e dalla delicata questione di uso versus conservazione - della cultura. Nelle edizioni precedenti abbiamo tentato di analizzare anche l'impatto sociale e culturale delle attività e dei beni culturali realizzati grazie agli investimenti fatti attraverso un modello, anch'esso innovativo, basato sulle teorie del premio Nobel Amartya Sen e dell'UNDP che hanno portato all'elaborazione dell'indice di sviluppo umano (HDI-human development index). L'indice di sviluppo culturale che il nostro gruppo di lavoro aveva elaborato partendo da quelle premesse metodologiche ha portato sicuramente a risultati indicativi anche se quel tipo di analisi ha incontrano alcuni limiti applicativi e di lettura dovuti in particolare alla dimensione territoriale d'analisi.

S.S.M. Infine mi piace chiederle se è reale, a suo parere, il rischio che alcuni settori culturali evidentemente più redditizi, possano ricevere maggiori finanziamenti a scapito di forme d'arte meno popolari, difficilmente in grado di attrarre risorse pubbliche o private. E.C. Se diventasse predominante il fattore economico con estrema probabilità si assisterebbe a differenti scelte strategiche anche in termini di pricing. In Italia non credo questo sia un rischio. A Torino come lei sa si fanno numerosi sforzi per preservare e garantire la complessità del sistema di offerta ed è la "molteplicità" a connotare scelte e linee strategiche. Il nostro territorio è ricco di iniziative bottom up così come top down. Iniziative spesso concertate tra più attori e molteplici figure professionali. Per se stessa la concertazione se da un lato costituisce una grande ricchezza dall'altro rappresenta un grado di difficoltà e di delicatezza. Centrale è dunque la regia di questi tavoli che ha tra gli altri un ruolo estremamente importante: quello di preservare, accanto alla conservazione e all'accesso, un ulteriore elemento che connota questo peculiare servizio pubblico. Si tratta del ruolo educativo imprescindibile da quelli di conservazione e accesso. In questo senso è determinante che l'offerta non si appiattisca sulla domanda. Qualche anno fa durante un convegno tenuto a Torino un docente della Bocconi aveva sottolineato il difficile ma imprescindibile ruolo "educativo" dei decisori che si occupano di cultura. Quali eventi proporre così come quali opere conservare sono scelte delicate che richiedono partecipazione e una profonda consapevolezza che porti al di là del gusto e delle mode - che rappresentano manifestazioni temporanee e soggettive di individui e più o meno piccole comunità. Ma le ripeto non credo che questo sia un rischio, le nostre analisi ci dicono che esiste una forte volontà di garantire molteplicità e complessità e il dibattito su come minimizzare l'effetto di dispersione delle risorse senza perdere la ricchezza culturale è ancora aperto.

Nessun commento:

Posta un commento